La Chiesa – La Piazza

Nella piazza è la chiesa parrocchiale di Santo Stefano Protomartire. Del 1500. Vivo centro di feste, eventi, divertimenti, incontri, giochi, chiacchiere, luminarie. Ricordi che segnano e sorreggono la memoria collettiva e individuale. Una costruzione robusta, la chiesa, con evidenti speroni antisismici. Due navate con volte a crociera e pilastri. Lavori di rifacimento. Affreschi, dipinti di pregio tra cui un prezioso “Il perdono di S. Francesco” di Jean Lhomme. Unico. Purtroppo trafugato con il terremoto e quasi tutto perduto. Ricordi vivi. Sulla destra la sacrestia, con gli annessi. Luogo pieno di giochi, di libri antichi, di video, di arredi e corredi religiosi. Posto di ritrovo, di allegria, di divertimento. Fuori, sotto la tettoia, la lapide commemorativa dei Caduti della Grande Guerra. Augusto Piersanti e il Poeta Soldato. La bacheca della Comunanza agraria. La tettoia è stata il teatrino, il punto di incontro per tanti ragazzi e ragazzini. Tanta vita spensierata. Un clima di fiducia e libertà. A guardarlo ora vengono i brividi, solo macerie.

La Quercia

Bellezza naturale plurisecolare. Dalla grande apertura ramale. Dal possente tronco ben radicato che sembra sfidare venti e bufere. Come fossero sacerdoti druidi che consideravano la quercia albero “sacro”, i nostri contadini, per secoli, l’hanno curata, coltivata facendo attenzione al parassita più insidioso: il vischio. Preziosi i suoi frutti: le ghiande. Ottimo alimento per “ingrassare” il maiale da cui dipendeva il benessere, la sopravvivenza della famiglia. Da questa ricchezza ha origine il Mestiere: l’Arte del Norcino nelle nostre zone. Stagionalmente praticato a Roma. Si è sviluppata e consolidata così la Cultura tradizionale della “Norcineria”. Ne siamo giustamente fieri. Con fantasia, dalla macellazione del maiale si ricavavano più di diciotto prodotti, tra freschi e stagionati e naturalmente innumerevoli piatti.

La Grande Quercia

Bella, possente, maestosa,
svettante, grondante colori;
saggia, fantasiosa, grandiosa,
circondata dall’eco dei fiori.

Sullo sfondo il piccolo altipiano
dipinto con mano d’affreschi
dove il sole matura il grano,
il vento sferza, e rende giganteschi.

Nella Rosa dei Venti sono nata
per secoli nutrita e coltivata
nel cuore custodita e radicata.

E noi, figli di terra generosa e dura
dispersi come forte ramatura
legati al tronco d’antica venatura.

Il Poeta

La Fontaccia

Colpisce la solidità di questa costruzione, concepita per sfidare i tempi e per durare. Pietre ben incastrate, bene incuneate per reggere l’acqua della piccola, preziosa sorgente. “Tagliarono” le pietre del colle di S. Stefano e la cava è ancora ben visibile. La vena è precaria … da cui, forse, il nome Fontaccia. Forse serba un’antica memoria. Certamente si formò nei pressi il primo nucleo abitativo: chiamato secondo la tradizione Fiorenzuola o Ferenzuola, in epoca Sabina-Romana. Lo dimostrano la struttura e l’architettura della fonte. Le vasche, le cannelle sulla parete di fondo, le volte a botte; la facciata con le pietre a incastro, scalpellate. Pietre che sono state trafugate. Una meraviglia che non possiamo più ammirare. Ci fu, come si racconta, una frana che seppellì l’antico abitato. Chissà! Chissà quando è successo. Da questa tragedia, probabilmente, parte dei superstiti ripararono sulle grotte di Colletta fondando Nottoria (Notte-ria, cattiva); parte ripararono in capanne di frasche da cui Frascaro….  Storia e leggenda si intrecciano.

La Fornacchia

Per costruire il “Paese”, non essendoci il cemento, si usava la CALCE. La calce si è dimostrata un cattivo legante tra pietra e pietra. Per questo motivo, case, chiese, edifici pubblici non hanno resistito ai terremoti. Crolli, morti, disastri. Ricostruzioni. La calce si ricavava dalle “fornacchie”, dalle calcinaie. Ci voleva un grandissimo lavoro! Si spianava il terreno tra i boschi, vi si radunava la legna tagliata a mano con accetta e roncola. Venivano sistemate pietre a formare una specie di cupola con davanti un’apertura per inserire la legna e fare fuoco che si teneva acceso per una settimana, giorno e notte, a turno. Così le pietre si squagliavano. Finalmente “la colata”. Era la CALCE.

Lo scoglio di Colletta

Grande scoglio che sporge e s’impone. Sembra proteggere da chi sa chi, da chi sa che o dalle bufere l’abitato sottostante. Incombe sulle case, ma non ha mai fatto paura. Ci sono grotte e anfratti teatro di gioco per i ragazzi di ogni tempo. Probabilmente rifugio di fortuna per i superstiti della grande frana. Tra le grotte ci nascondevamo e sognavamo la vita primitiva. I minuti, le ore scorrevano, si faceva quasi buio poi sentivamo le mamme che ci chiamavano perché era ora di cena. I cacciatori vi si appostavano per sparare alle ladre di galline in libertà: le volpi. 

L’Acquedotto e la Fonte di Villavecchia 

Cresceva la popolazione; cresceva di conseguenza il bestiame da abbeverare. Era necessaria un’acqua abbondante e pulita. C’era ma lontana. Quasi sulla cima di Monte Terria. Costruire la conduttura, “lu cunnuttu” non era facile. Ma nei secoli passati si fece. Con la tecnica a coppi sovrapposti e a scalare. Malsani, fragili, dispersivi. Scarsa profondità. La costruzione “de le funti”: metà del 1800.Presidente un Fiorucci. Soldi pubblici, aiuto dei privati. Nel 1932, si decise. Pala e piccone, ogni famiglia doveva scavare un tratto di forma profonda un metro e mezzo per assicurare acqua fresca e perenne; anche grazie ai moderni tubi incatramati e innestati a mestiere. Che rivoluzione!!!”So eterni”, si diceva. L’acquedotto è lungo 5 Km e mezzo, percorre la costa di Terria. Dalla sorgente a Nottoria. Con tanto di Bottini di protezione e ispezione. Un capolavoro. Un evento storico. Una epopea. Una ricchezza. Il bottino di raccolta, anni settanta, per fornire acqua alle case, ha un po’… alterato la freschezza dell’acqua. La soluzione era l’acquedotto del Pescia. Anni ottanta. Finalmente l’acqua nelle case. La fonte di Villavecchia è stata un punto di incontro. Serate indimenticabili. Amori, amicizie, simpatie, cavolate, discorsi. Risate, progetti, programmi. “Vulimo i su la montagna domani? Volemo annà? All’alba. Si parte da qui… Intanto il sole tramontava laggiù. A monte Mutaro. Ddo sta pure lu colle de Cunsulini e ‘ttello ce iamo, grossi e ciuchi, a passà l’acqua” lu martidì de Pasqua.

Scoglio di Santo Stefano

Sul promontorio dove si ergeva la chiesa, è lo scoglio di Santo Stefano. “Lu scojju de San Stefanu”. Teatro dei nostri giochi. Una vista sulle case, sulla valle, sui boschi. Sulle montagne; libertà.  Sulla cima, uno spiazzo. È li che portavamo le fascine “pe lu faone de San Stefanu”, il 26 Dicembre a sera. Neve o non neve. Illuminava tutta la Vallata, tutto il Paese. Una festa. Una fiaba.

Santo Stefano Vecchio

Originaria chiesa parrocchiale di Santo Stefano Patrono. Diroccata da tempo. È una maceria. Salvo l’angolo dove è l’affresco della Madonna che allatta, risalente al 1400. Vari rifacimenti. Ora, sepolti su altre macerie, due magnifiche colonne con capitelli d’epoca medievale. Vero centro spirituale del Paese che è diviso in due parti: Villa Vecchia e Villa Nuova. Costruita a ridosso di un taglio di roccia, la “cava”, su antichissimo luogo di culto pagano. Sono visibili nicchie. È noto che in epoca cristiana, i morti venivano seppelliti entro, sotto il pavimento delle chiese. Qui, scavate e poi murate a volta, “le fosse” erano otto. Sono ancora visibili le botole sul pavimento. C’era uno stretto legame tra i vivi e i morti. I sepolcri di Ugo Foscolo.

“L’acqua cotta”

L’acqua cotta era il piatto dei pastori, dei contadini. Si facevano bollire tocchi grossi di patate, cipolla tritata fine, un po’ di pomodoro (se c’era); verso la fine della cottura si aggiungeva la mentuccia. Dopo aver affettato del pane raffermo e averlo disposto nel piatto si versava sopra di esso “l’acqua cotta”. Si usava soffriggere in olio l’aglio tritato su un tegamino di coccio e appena indorato, se ne versava un cucchiaio abbondante su ogni piatto come condimento. Si aggiungeva un pizzico di pepe e scaglie di baccalà lesso (se c’era) per arricchire.

Le “Taccozze”

Le Taccozze erano “tocchi” grezzi, un po’ spessi, di pasta all’uovo e non. La sfoglia veniva tagliata a strisce grosse e ritagliata in senso obliquo da formare dei piccoli rombi. Potevano essere condite in tutti i modi!!!

Segale, grano, farro

Varietà rustiche, resistenti slanciate. Resistenti al freddo, alla siccità, agli animali selvatici. Il grano, “lo ranu” nostrale assicurava farina per pane, dolci e pizze…Il farro,”lo farre”, ancora più resistente alle avversità si “pestava” per minestre e zuppe. Si coltiva ancora. La segale, “la secina”, si erge. Ottima biada, bellissima paglia. Ideale per impagliare sedie fare rocce su cui posare “li callai”. Opere d’arte. La segale è il letto delle bestie. Lenticchie, ceci, roveja, fagioli erano legumi largamente coltivati e cucinati.

Il Granturco

Grande risorsa alimentare e culturale è ancora per pochi la coltivazione del granturco: “Lo ranturcu”. Il nostrale naturale. E’ questa una varietà precoce. Si semina per San Marco, 25 Aprile, su solchi abbastanza profondi. Così non abbisogna di tanta acqua. Va zappato, insolcato e raccolto a mano verso la metà di settembre. Buonissimi sono i tuteri, “i toti” freschi cotti sulla brace. Vanno sfogliati e essiccati al sole. Una volta le vie del paese erano piene di stupende“balconate”, coloratissime, fantasiose…. Sfogliare era un ritrovo, un aiuto reciproco….racconti, indovinelli, scherzi, fantasie! Si batte, si trita finemente per dell’ottima polenta. Le foglie ben essiccate, servivano per riempire i pagliericci, erano i materassi che cullavano i nostri sogni di bambini.

La Fonte di Villanova

L’altra fonte, di Villanova, un centro egualmente prezioso con tanto di lavatoio e abbeveratoio fu realizzata nel 1932-34 insieme all’acquedotto con il contributo del Comune di Norcia (Podestà Feliciano Gentili e la Comunanza Agraria di Nottoria Presidente Antonio Fiorucci).

La lapide

Questa lapide era posta sul piccolo portico della sacrestia adiacente la chiesa di Santo Stefano in commemorazione dei caduti durante la prima guerra mondiale.

Attualmente è sepolta sotto le macerie.

Il Campetto

Ritrovarsi al Campetto. Per giocare a calcetto. Uno spazio prezioso aperto a tutti. Quante sfide, quanti tornei estivi. Eravamo forti. Quanta amicizia è passata su quel bel tappeto verde…… Un appuntamento quotidiano. Vittorie, sconfitte; piccoli grandi indimenticabili trofei. Che restano. Grida, sudore, risate. Tifo contro tifo. Come a Testaccio. Partite interminabili come ai vecchi tempi. Bottiglie di acqua fresca. Tanti parenti. Amici in vacanza. Da Roma. Da ogni dove. Le storie. La storia.

Il vino

Nei terreni più poveri, impervi, sulle coste erano le vigne.

Una grandissima penetrazione umana nel territorio. Un lavoro “capillare”. Il vitigno era “il pecorino”. L’uva dagli acini piccoli; maturava a queste altitudini; per un vino leggero e prezioso. Era bevanda sociale. Tanta vita, tanta allegria, tanti ricordi. “Lo vinu” che allietava “lu fistinu”. Bastava na ciammella, n’organetto, storielle, saltarello, quadriglia, raspa, li canti e….tanta gioventù e tanta gente. Tanta allegria.

“Ricciu a saccu drent’ a lu saccu”

Era uno scherzo alle spalle di persone ignare, ingenue e un po’ “spaccone”. Era molto divertente perché coinvolgeva tutto il paese.

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